Si riapre il tavolo tra governo e sindacati. Il focus pensioni su giovani e donne
Attualità — By cidec on 2017/07/31 11:56Al centro del tavolo tra governo e pensionati, c’è non solo l’agenda della “fase 2″ sulle pensioni e dunque giovani e donne. Ma anche qualche rammendo della “fase 1″, in particolare l’Ape sociale. E un tema scottante: la revisione del meccanismo automatico di adeguamento all’aspettativa di vita che sposta sempre più in là l’età di uscita dal lavoro. E che sindacati, ma anche politica (vedi la proposta Sacconi-Damiano) vorrebbero quantomeno congelare.
Ape sociale e donne. Il surplus di richieste – 66 mila domande, il 10% in più di quanto preventivato da Palazzo Chigi – per anticipare la pensione a 63 anni e dunque al massimo di 3 anni e 7 mesi rispetto al normale requisito di vecchiaia, costringe il governo a una sorta di “tagliando” della misura. L’obiettivo dei sindacati è ampliare le platee, oggi limitate a chi è disoccupato, assiste malati gravi, svolge lavori gravosi o ha iniziato presto a lavorare (i “precoci”). In particolare si pensa a ridurre i requisiti di accesso all’Ape sociale per le donne, le più penalizzate da carriere discontinue e per le quali è davvero complicato assicurare 30 o 36 anni di contributi. Non a caso, su 66.409 domande arrivate all’Inps entro la metà di luglio, solo 15.400 sono di donne: il 23,2% ovvero meno di una su quattro. Tra le ipotesi, c’è quella di riconoscere alle donne tre anni di bonus. Oppure un anno per ciascun figlio, limitando lo sconto alle madri. Ampliare le platee significa però, dal punto di vista del governo, trovare più soldi da stanziare nella prossima legge di bilancio visto che l’Ape sociale è una misura assistenziale a carico dello Stato (fino ad un assegno mensile di 1.500 euro).
Giovani. C’è poi il tema del futuro previdenziale dei giovani, condannati a lavorare ben oltre i 70 anni. Il governo guarda a una “pensione di garanzia”, ma la strategia non sembra definita. Convivono almeno tre proposte. La prima, la Damiano-Gnecchi – depositata alla Camera tre anni fa – prevede una “pensione di base” per tutti di 442 euro rivalutabili, finanziata dalla fiscalità generale e concessa a patto di avere almeno 15 anni di contributi versati, da aggiungere alla pensione contributiva maturata, purché il totale non superi i 1.500 euro. La seconda proposta, avanzata dall’economista Michele Raitano, punta a ricalcolare l’assegno di garanzia in modo che sia proporzionale agli anni di contribuzione e all’età del ritiro dal lavoro, a prescindere dai contributi effettivamenti versati. Assegno irrobustito in casi particolari di disagio o discontinuità: lavoratrici part-time, parasubordinati, disoccupati con molte interruzioni. E pronto a valorizzare anche i periodi di formazione, tra un impiego e l’altro. La terza proposta, formulata pochi giorni fa dal consigliere economico di Palazzo Chigi Stefano Patriarca, ruota attorno a un “minimo previdenziale”, come nel sistema retributivo, pari a 650 euro al mese per chi ha 20 anni di contributi, che aumenta di 30 euro per ogni anno in più, fino a un massimo di mille euro, equivalenti a 35 anni di versamenti. Tutte e tre le proposte prevedono un intervento robusto delle casse dello Stato. Un terreno scivoloso, per la “sostenibilità dei conti” pubblici.
Aspettativa di vita. Se il meccanismo rimane così com’è, dal 2019 andremo in pensione a 67 anni, ovvero cinque mesi più tardi di oggi. Non solo. Un lavoratore classe 1980, considerando gli adeguamenti automatici all’aspettativa di vita, potrà uscire solo a 73 anni e 5 mesi. Possibile? Realistico? Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, presidenti rispettivamente delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, chiedono maggiore “gradualità” e pensano sia necessaria una sorta di moratoria o meglio di un “rinvio strutturale” del prossimo adeguamento automatico, quello che scatta nel 2019 ma che il governo può modificare entro l’anno. Il presidente dell’Inps Tito Boeri ha già avvertito che il blocco comporterebbe 141 miliardi di spesa in più da qui al 2035 e un incremento di 200 mila pensioni all’anno. Il problema però è sul tavolo. E riguarda giovani, ma anche meno giovani.